La Scienza del Rimorso


Introduzione

Nel 1980, giunto quasi al termine della mia esperienza in Ospedale Psichiatrico, mi fu chiesto da un gruppo di operatori di fare un bilancio teorico-pratico del lavoro svolto. Molti di loro, pur sapendo che ero uno psichiatra critico e un analista, erano vivamente interessati a capire in che senso sin da allora preferivo definirmi un antropologo.

La conferenza anticipa temi che poi sarebbero stati sviluppati in una forma molto più adeguata nei seminari. Essa rappresenta sostanzialmente un tributo al pensiero di Lévi-Strauss e agli insegnamenti che ne avevo allora ricavati. La citazione sulla quale si articola il discorso è ancora oggi densa di significati e commovente. Penso che se ne possano trarre ancora riflessioni importanti.

La scienza del rimorso

Definendo l'antropologia sociale scienza del rimorso, Lévi-Strauss ha tracciato una via maestra per le scienze umane: l'uomo che assume l'uomo come oggetto di studio commette, per ciò stesso, una colpa che è destinato a scontare riconoscendo, prima o poi, nell'altro, l’alienazione del suo stesso essere. Non è importante, né sempre possibile, che se ne riappropri: il rimorso, di cui ogni scienza umana è permeata, non tende alla restaurazione di una originaria unità, perduta forse per sempre, bensì al riconoscimento di una diversità che, affrancata dagli stigmi, dissolve il mito lineare del progresso e rimette in causa “l'uomo intero in ognuno dei suoi esempi particolari" (Antropologia strutturale due).

Di questo insegnamento, forse senza sapere, la psichiatria, sta prendendo atto. Più di ogni altra scienza umana, essa ha da rimproverarsi un'oggettivazione tanto radicale da essersi tradotta in un vero e proprio progetto di annientamento. Basta qualche dimestichezza con la storia della psichiatria e con la sterminata e non di rado inquietante letteratura che ne ha tessuto la trama ideologica, per rendersi conto che questa formulazione, eccessiva per l'orecchio, non lo è per la ragione.

Leggiamo, per esempio, le conclusioni di un articolo pubblicato, a firma di un certo Dr. Goodel, sull'American Journal of Insanity, portavoce della giovane ed intraprendente psichiatria statunitense tardottocentesca:

“Poiché il corpo medico si mostra generalmente favorevole all'estirpazione delle ovaie in molti casi di anomalie fisiche, dipendenti dalle mestruazioni, mi sembra che la stessa metodica debba essere tentata a fortiori nei casi di squilibrio psichico dovuto alle stesse cause. Le obiezioni che si possono fare riguardo a questa operazione sono, in effetti, meno valide quando si tratta di una malattia di mente che nei casi di anomalie fisiche.

In primo luogo, una donna che è folle non fa parte del corpo sociale più di un criminale.

In secondo luogo, la sua morte è sempre un sollievo per gli amici più cari. In terzo luogo, se pure essa può guarire dalla follia, resta sempre esposta al rischio di trasmettere il germe della malattia ai figli per molte generazioni.

Quando una donna è in tale situazione, toglierle le ovaie è al tempo stesso un tentativo di renderla alla famiglia e alla società, e di opporsi al pericolo ch'essa possa dar luogo ad una generazione di folli.

Io sono sicuro che, in virtù del progresso, gli uomini riconosceranno che una buona pratica sociale deve proporsi dì far scomparire la follia prescrivendo la castrazione di tutti gli uomini e l'ovariectomia di tutte le donne folli".

Si tratta d'un brano esemplare per l'onestà intellettuale dell'autore che esprime, senza mezzi termini quello che molti colleghi pensano, al di là e al dl. qua dell'Oceano. Chi voglia limitarne il significato storico con il consueto éscamotage psicodinamico, attribuendone l'efferatezza alla inconscia perversione dell'autore, deve poi fare i conti con ben altri documenti. La prassi auspicata da Goodel è stata infatti ricusata con vigore e con sdegno dalla classe medica: ma l'ideologia che essa esprime non è forse la stessa che, dopo qualche decennio, produrrà la psicochirurgia?

In breve, gli eccessi terapeutici che segnano tutta la storia della psichiatria, e di cui l'istituzione è letteralmente impregnata, nonché la perversione degli psichiatri, denunziano la perversione logica di una scienza che, distinguendo artificiosamente tra malattia e individui, autorizza, per il raggiungimento del bene supremo della guarigione, rischi che possono giungere alla soppressione di quelli.

Perversione logica che, nonostante la pretesa di rottura col passato del Positivismo, non ha nulla di originale, essendo la stessa in ordine alla quale si bruciavano sul rogo i corpi di coloro la cui unica colpa era di essere “posseduti” dal demonio.

Restituzione di senso

Per alcune colpe non esistono riparazioni.

Così è - attesta Lévi-Strauss -per i primitivi, il cui destino storico, nonostante il tardivo riconoscimento dei valori che sottendono la loro cultura, è irreversibilmente segnato: tra pochi decenni scompariranno dall'orizzonte della storia, senza lasciare traccia, se è vero che il carattere distintivo della loro civiltà è il rifiuto della storia.

Analogamente, alle infinite generazioni folli che hanno trascorso l'esistenza nel chiuso cerchio delle istituzioni manicomiali. nulla potrà essere restituito: nessuno, peraltro, si azzarda a fare un bilancio che risulterebbe agghiacciante per la coscienza della Civiltà occidentale. Nell’impossibilità di riparare un danno infinito, è lecito però coltivare il rimorso, raccogliendo le testimonianze di coloro che sopravvivono e restituendo loro un senso obliterato.

1) Reliquie

Da innumerevoli anni, Lea dedica una sollecitudine quotidiana apparentemente insignificante ai rifiuti. Raccoglie e conserva nelle tasche perennemente rigonfie della vestaglia pacchetti vuoti di sigarette, tappi di bibite, foglie morte, bicchierini di plastica usati, elastici rotti, astucci spremuti di dentifricio, pettini sdentati, ritagli laceri di giornale. Nel peregrinare muto e discreto di un’esistenza devastata dalla lobotomia, l’abitudine inveterata pesa sulla bilancia del non senso che la campisce.

I rifiuti raccolti non di rado Lea li offre accompagnando l’offerta con un farfugliare incomprensibile e con uno sguardo ingenuo ma penetrante. L’oblazione di solito è accolta con affabile sufficienza: i rifiuti poi raggiungono la destinazione naturale, il cestino e il secchio dell’immondizia.

All’accorato silenzio di un gruppo terapeutico, che conferma la protesta di una partecipante per una spoliazione giunta ormai alle radici stesse dell’esistenza, Lea risponde cavando fuori dalle tasche e ponendo in ordine sul tavolo, con cura minuziosa, le consuete cianfrusaglie. La messa in scena, nonché commuovere, rende giustizia ad un messaggio caduto per anni nel vuoto. I folli, come i rifiuti, sono relitti: resti, non meno che tracce d’un consumo giovato a qualcuno. Considerarli immondizie o reliquie è un giudizio di valore, non di fatto.

C’è chi sostiene che il termine pazzo, nella misteriosa ambiguità dell’etimo, spazi in un ambito semantico che mira a restaurare la parentela con il patos, -ous, che significa fimo, deposito.

Alla suggestione di un’etimologia azzardata, Lea aggiunge inconsapevolmente una prova che la corrobora.

2) Incorporazione

Dalle grondaie dove nidificano i passeri, è caduto, stamane, un piccolo spelacchiato. Brunella che, al solito, ramazzava davanti l’uscio, l’ha raccolto vegliandone la breve agonia nel cavo della mano. Versata qualche lacrima, ha svuotato il corpicino delle viscere, cucinandolo poi in un tegamino con un filo d’olio.

Il disgusto di tutti, indescrivibile, non l’ha turbata. Sgranocchiando tranquilla il mucchietto di ossa, ha commentato: “Non è meglio così che marcire sotto terra?”.

Esserino inerme precipitata essa stessa da un improvvido nido, da venticinque anni l’Istituzione vigila la sua vita che è un’inutile agonia.

Il rito cannibalico è, in fondo, meno crudele: vale a sottrarre alla decomposizione ciò che ancora può eludere la morte.

3) L'immunità

Franca s’è recintata con i mezzi di cui dispone: rutti, scoregge, scatarrate, sbavature, sfregamenti ai genitali. Dopo la devastazione degli elettroshock, dei comi insulinici, della lobotomia, ha scoperto l'uovo di Colombo: il sudiciume, in manicomio, è l’unico modo per stare tranquilli e mantenere tra sé e gli altri, una distanza di sicurezza. Gli agitati, ingenuamente, presumono delle proprie forze attirano su di sé la repressione come il miele le mosche. Franca non vi si oppone, la disgusta. Nessuno osa superare la cortina del puzzo, degli escreti e dei secreti appiccicaticci.

Quando, durante le sedute di gruppo chiede con indifferenza arrogante: “Qui si parla con la bocca o con il culo?”, è chiaro che allude alla sua capacità di comunicare o di farsi rifiutare, alla sua forza, che è fatta di disperazione.

Quanto le sia costata la conquista dell’immunità, viene fuori poco dopo quando estrae dalla tasca del camiciotto una busta di plastica per l’immondizia, la spiega, ne apre l’imboccatura, ci ficca dentro la testa e se la cala sul petto, restando poi immobile come una statua.”

Resti, rifiuti, scorie, relitti d'un mondo che aborrisce riconoscere nell'usato il valore d'uso originario, i folli s'identificano con questo zero simbolico, che ha rappresentato per due secoli la colpa del loro non senso, segnalandoci però che si tratta d'uno zero prezioso. E', infatti, solo un giudizio di valore misconoscerne il doppio senso che ne fa contemporaneamente reliquie e concime.

Per non indurre equivoci nei critici malevoli che subodorano ovunque una pretesa mistica della follia, si rispetti il doppio senso, che non va univocato, a rischio di perdere la tensione significativa della follia che, se incombe sulla normalità, non è per demistificarla o per contrapporsi ad essa come altra, e più vera normalità, bensì, più semplicemente, per restituirle la consapevolezza, ch'essa tende a smarrire, della sua inesorabile precarietà o, meglio, della sua incompiutezza simbolica.

Transazione

Gli intellettuali non sempre hanno il buon senso e l'umiltà dei folli. In anni recenti, più d'uno tra loro ha radicalizzato il discorso sulla follia, identificando in esso la punta emergente di un iceberg eversivo destinato a far naufragare il sistema sociale totale. Più concreti, più umani, i folli rifiutano dl calarsi in un ruolo che li trasformerebbero da vittime in persecutori.

Ciò che essi propongono, a chi ha orecchie per intendere, è piuttosto una transazione: la possibilità di coesistere con gli altri in una mediazione simbolica.

Si legga la seguente testimonianza, che è la trascrizione di un gruppo di terapia di psicotiche croniche istituzionalizzate (Scene da un manicomio 2).

Scienza del rimorso, la psichiatria alternativa null'altro fa che recepire il messaggio dei folli, nel quale preme un'insopprimibile nostalgia.

Frutto di una conjunctio tra la sognante passione della sposa e la promessa presto dimenticata dell'uomo di mare, il bambino segue una sorta di zenith che orienta la nostalgia. In qualche punto del tempo e dello spazio, prima che avvenisse l'abbandono e il tradimento, normalità e follia intrattennero un rapporto intimo e fecondo: i folli si dichiarano disposti al sacrificio perché ciò sia riconosciuto.

Si tratti di una verità che la storia o l’antropologia dovranno incaricarsi di verificare o, com’è più probabile, della messa in scena di un desiderio, l'attesa dei folli merita di essere riconosciuta come oscura intuizione di un'ipotesi che Lèvi-Strauss si è incaricato d'enunciare. La citazione è d’obbligo:

“E' della natura della società di esprimersi simbolicamente nei suoi costumi nelle sue istituzioni; al contrario i normali comportamenti individuali non sono mai simbolici di per se stessi: essi sono gli elementi a partire dai quali un sistema simbolico, che può essere solo collettivo, si edifica. E sono soltanto le condotte anormali che, perché desocializzate e in qualche modo abbandonate a se stesse, realizzano, sul piano individuale, l'illusione di un simbolismo autonomo. Detto in altro modo, le condotte individuali anormali, in un dato gruppo sociale, giungono ai simbolismo, ma ad un livello inferiore e, se così possiamo dire, in un ordine di grandezza differente e realmente incommensurabile a quello in cui si esprime il gruppo.

E' dunque al contempo naturale e fatale che, simboliche da una parte e traducenti dall'altra (per definizione) un sistema diverso da quello di gruppo, le condotte psicopatologiche individuali offrono a una società una specie di equivalente, doppiamente sminuito (perché individuale e perché patologico) di simbolismi diversi dal suo proprio, essendo vagamente evocatori di forme simboliche su scala collettiva…

Ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici dei quali al primo posto sono collocati il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l'arte, la scienza, la religione Tutti questi sistemi mirano ad esprimere certi aspetti delle realtà fisica e della realtà psichica, e in più le relazioni che questi due tipi di realtà mantengono tra loro e che, sistemi simbolici essi stessi, mantengono gli uni con gli altri.

Che essi non vi possano mai giungere in modo soddisfacente, e soprattutto equivalente, risulta innanzitutto dalle condizíoni di funzionamento proprie a ogni sistema: restano sempre incommensurabili; e in secondo luogo, per ciò che introduce in questi sistemi di nuovo, la storia determina slittamenti da una società verso un'altra e nel ritmo relativo di evoluzione di ogni particolare sistema.

Dal fatto dunque che una società è sempre data nel tempo e nello spazio, dunque soggetta all'incidenza di altre società e di stati anteriori al proprio sviluppo, e dal fatto che anche una società teorica non potremmo immaginarla senza relazione con qualsiasi altra e indipendente di fronte al suo passato, i differenti sistemi di simboli, il cui insieme costituisce la cultura o civiltà, resterebbero irriducibili tra loro ...

Risulta che nessuna società è mai stata integralmente e completamente simbolica; o, più esattamente, che essa non giunge mai ad offrire a tutti i suoi membri e al medesimo grado il modo di utilizzarsi pienamente nell'edificazione di una struttura simbolica. che, per il pensiero normale, è realizzata solo nel pieno della vita sociale.

Una qualunque società è dunque paragonabile a un universo in cui masse appena rilevabili sarebbero altamente strutturate. In ogni società sarebbe perciò inevitabile che una percentuale (d'altronde variabile) di individui si trovi posta, se così possiamo dire, fuori dal sistema o in due o più sistemi irriducibili. A questi il gruppo chiede, e impone anche, di raggiungere certe forme di compromesso irrealizzabili nel piano collettivo, di immaginarie transazioni, di incarnare sintesi incomprensibili.

In tutti questi comportamenti apparentemente aberranti i "malati" non fanno dunque che trascrivere uno stato di gruppo e rendere manifesta questa o quella sua costante. La loro posizione periferica, in rapporto a un sistema locale, non impedisce che allo stesso modo di questo essi non siano parte integrante del sistema totale.

Più esattamente, se essi non fossero docili testimoni, il sistema totale rischierebbe di disintegrarsi in sistemi locali.

Possiamo dunque dire che per ogni società il rapporto tre comportamenti normali e anormali è complementare..

Se 1a nostra ipotesi è esatta, ne consegue che le forme di turbe mentali caratteristiche dì ogni società, e 1a percentuale degli individui che ne sono affetti, sono un elemento costitutivo del particolare tipo di equilibrio che le è proprio".

Il pensiero di Lévi.Strauss, a mio avviso, contiene due suggerimenti. teorici di estremo interesse per la psichiatria: la nozione di complementarietà e quello di specificità. L'esperienza psicopatologica è complementare a quella normale nella misura in cui, contraddittoriamente, essa realizza la sintesi tra il sistema simbolico locale e i sistemi simbolici ad esso estranei. Essa, però, è anche specifica, nel senso che ha un concreto rapporto con il sistema simbolico locale di una determinata società.

In altre parole, si potrebbe dire chenessuna società eliminerà l'alienazione, ma ciascuna è tenuta a riconoscere, nell'alienazione che le è propria, il suo doppio. La malattia di mente, dal punto di vista strutturalista, manifesta la tendenza, destinata a mai realizzarsi, alla chiusura di ogni sistema culturale e di ogni società; al tempo stesso, esprime quei bisogni umani che, non potendo realizzarsi all'interno del sistema, possono esprimersi solo perifericamente in forme contraddittorie, delineando piuttosto un ponte tra l’individuo e un simbolismo indecifrabile nella misura in cui la chiave interpretativa attiene a sistemi simbolici esterni piuttosto che interni al sistema stesso.

Il principio di complementarietà esprime, lo voglia o no Lévi-Strauss, una concezione evolutiva e dinamica della civiltà.

Con il suo pensiero siamo lontani dai sociologismo di maniera, che definisce l'anormalità come ciò che sta fuori dalla norma. Ii problema, evidentemente, è, al contrario, ch'essa sta dentro, sia pure ai margini, alla periferia. E' il suo star dentro che impedisce alla struttura di disintegrarsi, è la sua funzione di confine, che segnala un'aldilà, paradossalmente, minaccioso.

Sinora nessuna società è riuscita a tollerare l'incerto statuto di cui la follia è testimone.

L'intolleranza si è tradotta talora in una sorta di incorporazione cannibalica, come nelle società che Lèvi-Strauss definisce antropofagiche: anzichè oggetto minaccioso, esecrabile, da emarginare o espellere, il folle vi svolge il ruolo di oggetto totemico, rispettato e ossequiato, temuto sia pure sul registro della sacralità. Più spesso, l'intolleranza ha dato luogo al rígetto, come nelle società che Lèvi-Strauss definisce antropoemiche: indigesto, contaminante, esecrato, il folle viene vomitato.

Segregandolo nello spazio istituzionale, la società occidentale tenta una sorta di quadratura del cerchio: espulso dal contesto sociale, il folle si ritrova chiuso in uno spazio paradossalmente ipernormativo. Preso atto della sua difficoltà dí comportarsi normalmente, l'istituzione gli impone regole che sarebbero intollerabili per qualunque soggetto normale. Alla prevaricazione del progetto istituzionale i folli oppongono un progetto di transazione, cui obsta, nonché la schiera dei pregiudizi sociali,, che è fragile, l'ideologia globale di una società storicista ed umanista che, non per caso, identifica se stessa con l'apogeo dello sviluppo, e dunque non può rimettersi in discussione né giungere alla consapevolezza critica su cui dovrebbe fondarsi un universo umano tollerante: essere essa, come ogni civiltà, una nebulosa in via di organizzazione. Non può, insomma, prendere coscienza della sua incompiutezza simbolica.

L'affermazione, sorprendente, è documentabile storicamente. Per circa un secolo dai suoi esordi, la psichiatria si è impegnata a sensibilizzare l'opinione pubblica su un pericolo ch'essa evidentemente, specie a livello popolare e contadino, tendeva a misconoscere: la pericolosità della malattia. Questo impegno si coagulò ideologicamente nella individuazione, da parte di Esquirol, della monomania, una sindrome delirante che può evolvere in maniera inapparente per anni e poi affiorare bruscamente, a ciel sereno, sotto forma di. raptus.

Tale ideologia postula due strumenti essenziali di prevenzione: un costante stato di allarme da parte dell'opinione pubblica, che deve essere pronta cogliere fin nelle sfumature i segni della malattia mentale, e l'elevazione degli psichiatri a membri di una sorta di comitato di salute mentale pubblica, con pieni poteri su tutti i cittadini e perpetuamente vigilante. Strumenti ambedue interagenti in un circolo vizioso sempre più pregiudiziale.

L’incompiutezza simbolica

Giusta l'ipotesi di Lévi-Strauss, ogni società deve apprendere a conoscere la follia che urge ai suoi confini, la sua follia, che ne attesta l'incompiutezza simbolica, e pertanto la precarietà. Ma conoscerla come: microsociologicamente, nei singoli soggetti, o macrosociologicamente, nell'entità del fenomeno che ha dimensioni sociologiche? La nozione di incompiutezza simbolica consente di riconsiderare il rapporto, così spesso sterilmente oppositivo, tra sociologia e psicanalisi.

Scienza del sociale l'una, del soggetto l'altra; scienza, dell'uomo, dunque, la cui relazione sembra minacciata da un'esorbitante e reciproca vocazione imperialista. Chi ignora i danni del riduzionismo sociologico o dello psicologismo analitico? Una mediazione non sembra impossibile se si assume una concezione strutturalista della cultura come insieme di sistemi simbolici inconsci in perpetua, lenta e, pertanto, inapparente organizzazione. Posto ciò, ogni disavventura soggettiva può essere esplorata a parte subjecti, cioè psicanaliticamente, o a parte objecti, cioè antropologicamente.

La relazione che intercorre tra i due livelli può essere adeguatamente definita se si tien conto che ogni contesto può essere compreso nei suoi nessi interni, cioè al suo stesso livello, ma spiegato cioè interpretato causalmente, solo in virtù di un contesto più ampio, cioè di un metacontesto. Ogni esperienza soggettiva può essere pertanto compresa analiticamente, ma spiegata solo antropologicamente. Prima ancora che l'inconscio individuale, è l'inconscio sociale nel senso levistraussiano a presentare le smagliature che si riproducono, mediate dal soggetto, nella sua struttura.

Prendiamo spunto da un'esperienza per concretare l’analisi:

1) Occhi fatali

In vent’anni di manicomio, Lina si è ingobbita e ingrassata, ha perso i denti, ma ha ancora gli occhi neri, grandi, luminosi. Vi si riverbera una storia semplice e fatale.

Lina nasce in un piccolo paese dì contadini limitrofo Roma da due genitori che , ignorando la inesauribile fecondità del climaterio, tralasciano ogni precauzione. Fratelli e sorelle hanno vent'anni di piu. La madre, sulla soglia dei 50 anni, scambia l'amenorrea gravidica con il sopraggiungere della vecchiaia: quando l'equivoco si chiarisce, è troppo tardi per porvi rimedio.

Si trincera in casa, assillata da una colpa destinata. nei suoi timori, a svergognarla per sempre agli occhi del paese; ne sortirà solo il giorno del rito battesimale. Quel giorno conferma le sue paure: la curiosità del paese si associa ad una sorta di derisione muta e implacabíle.

Lina cresce all'ombra di due ombrose vecchiaie, ferite nell'onore e trepidanti per la sorte di una figlia cui non possono concedere che i trastulli del silenzio. Per anni, vergognosi di. un rapporto avuncolare con la figlia, si celano e la celano agli sguardi indiscreti della curiosità paesana in una sorta di interminabile quarantena espiatoria.

Lina. per ironia della sorte, è uno splendore: ha i capelli corvini, gli occhi neri e lucenti, la carnagione vellutata, L'adolescenza ne esalta la grazia e, rendendola consapevole del suo aspetto, le fa vivere come una frustrazione l’adulazione degli specchi.

Intollerante di un’inconfessata ma pressoché continua reclusione, Lina prende ad infrangere l'interdetto familiare. In un paese il cui dialetto definisce col termine scappare l’uscire da casa, le fughe solitarie e innocenti di Lina risultano scandalose. Tutti gli occhi le sono addosso, alle sue spalle si mormora; guarda Lina! guarda eccola, eccola! Monstrum predestinato dal caso, Lina introietta gli sguardi, i richiami, le voci, le insidie e i desideri. Il suo narcisismo, esasperato dagli specchi e dall’interdetto parentale, si dispiega, si esalta, la vota al delirio. Un delirio d’amore, naturalmente, per il primo uomo che conosce ed è sposato.

Una lettura psicanalitica non stenterebbe a decifrare, tra le righe, il dramma di un narcisismo esasperato e fissato senza scampo all'Edipo. Ma si rifletta sul salto generazionale che motiva la vergogna dei genitori, la loro accorata strategia di occultamento, l'isolamento di Lina. Si ricostruirà un gruppo familiare nel, quale Lina occupa il posto di una sorella che potrebbe essere figlia dei suoi fratelli, o in altri termini, di una zia che potrebbe essere cugina dei suoi nipoti. Si consideri altresì che questo posto, codificato all'interno di culture che adottano regole di parentela molto dettagliate, rappresenta uno strappo simbolico all'interno d'una cultura come la nostra, il cui codice di interdizione matrimoniale si può dire molto grossolano. Il rapporto zia-nipote è infatti interdetto, sia pure debolmente; il rapporto tra cugini è appena sconsigliato per motivi di consanguineità.

Quando però due rapporti si sovrappongono, l'interdetto, già debole di per sé, si indebolisce ulteriormente. Il gruppo familiare, nei quale si verifica questa circostanza, è esposto alla minaccia incombente dell'incesto.

Si giustificano pertanto le strategie di occultamento di Lina, vissuta inconsciamente come monstrum, la repressione della sua vita affettiva, intesa come pericolosa anche se rivolta a membri non familiari, e infine la sua espulsione nell'istituzione.

Si dirà che l'esempio è pretestuoso. Lo è letteralmente, dato che ci permette di intuire che ogni strappo nella rete simbolica dell'inconscio sociale rappresenta un pretesto per l’emergenza della follia

L'affermazione, naturalmente, non va assolutizzata. Si tratta non già d'un fattore immediatamente patogeno, bensì d'un fattore di rischio elevato. Occorre cioè il concorso di altri fattori, ma, giusta l’ipotesi, si tratta pur sempre di fattori antropologici. Nel caso specifico, non si può trascurare, per es., che la cultura contadina è più carica di ansia rispetto all’incesto, perché la condiziona familiare solitamente allargata, convivente e relativamente isolata è tale da esporre i membri ad una maggiore pressione incestuosa.

Non abuseremo del pretesto per ricavarne una teoria sociogenetica della follia, che pure risulta adombrata. Ci. basterà dedurne la conferma che il disordine della follia, veicolato e vissuto dal soggetto sino all'invalidazione, segnala l'incerto ordine simbolico del territorio culturale in cui esso procede.

Questo assunto non va confuso con le teorie sociogenetiche che assumono la follia come sintomo di una malattia che compete al microgruppo familiare o al sistema sociale totale. Queste infatti, reificando ancora una volta la "malattia", promuovono un interventismo il cui obiettivo finale, perseguibile con strumenti tecnici e/o politici, è la "guarigione", intesa come scomparsa della follia dall'orizzonte della storia: insomma, un esorcismo. Impossibile, com’è giusto che sia.

Se ogni società è incompiuta sul piano simbolico, lavorare sulla follia significa spostare un confine cui è costitutivo l'al di là. Prima e più che nella terapia, intesa come intervento contingente sulle singole situazioni, aperto continuamente al rischio della dispersione, l'accento va posto sulla tolleranza, e cioè sulla consapevolezza sociale della complementarietà tra normalità e follia.

Psichiatria o antipsichiatria

Se ogni società riconosce, e non può non riconoscere, una sua normalità e una sua follia, e se il rapporto strutturale tra questi due mondi di esperienza è complementare, il quesito - psichiatria o antipsichiatria - è evidentemente mal posto. La normalità postula la psichiatria, la follia l'antipsichiatria.

Psichiatria e antipsichiatria sono infatti due diversi modi di porsi rispetto al confine culturale con cui ogni società si difende dalla destrutturazione, dal poter essere altro da ciò che è. La psichiatria lo vive dall'interno, come limite costitutivo del reale valicabile solo in seguito ad un'infrazione cui consegue immediatamente l'esperienza patologica: la sua funzione è pertanto meno di consolidare il confine che di interdire gli sconfinamenti o invalidarli.

L'antipsichiatria lo vive altresì come confine tra il simbolico acquisito ad una cultura e quello non acquisito, eccedente ed eccessivo: la sua funzione è quella di convalidare piuttosto che invalidare gli sconfinamenti, vedendo nell'esperienza, privata e pertanto desimbolizzata, del singolo l'espressione d'un bisogno collettivo. In altri termini, la psichiatria ha una tendenza inesorabilmente centripeta, tende ad accorciare il raggio del cerchio culturale, l’antipsichiatria ad acrescerlo.

La psichiatria è sottesa dall’utopia d'una normalità puntiforme, coincidente con il centro d'una sfera inesistente, 1'antipschiatria dall’utopia di una normalità eccentrica perpetuamente in espansione, tendente all'infinito.

E' chiaro che la realizzazione esaustiva dell'una e dell'altra è da scongiurare: è altrettanto chiaro che, misconoscere la funzione storica dell'antipsichiatria, e ridurla ad una sorta di tic di intellettuali snob, esprime una concezione delle scienze umane semplicistica, riduttiva e sostanzialmente storicista.

Nella realtà concreta del lavoro antistituzionale, il problema si è posto quando, venendo meno il modello istituzionale ipernormativo, che è quello del paziente cronico tranquillo, cioè del folle pervenuto ad una normalità eterodiretta - quieto, docile, connivente - c'è stata la tentazione di proporre ai ricoverati, con l'alibi della risocializzazione, un modello di normalità da introiettare e cui adeguarsi.

Questo modello è caratterizzato da tre parametri fondamentali che nel complesso configurano l’identikit anonimo della normalità: residenza, attività lavorativa, stato civile. Come il folle istituzionalizzato è un soggetto recluso, passivizzato nell’ozio, segregato sessualmente, così il folle risocializzato si è configurato, nelle aspettative degli operatori, come un soggetto residente volontariamente nell’ospedale, attivo sotto il profilo produttivo o comunque partecipe rispetto alla vita comunitaria, disciplinato nella manifestazione degli affetti e nell’esercizio dell’eros.

Non pochi ricoverati in effetti hanno aderito a questo modello. Coloro che lo hanno rifiutato sono stati a tutta prima vissuti come ingrati o irresponsabili o ancora malati. Solo lentamente ci si è aperti ad un modo di vivere più articolato, più profondo. Nella comunità, nonostante l’istanza normativa veicolata da numerosi operatori, si riproponeva il problema della opposizione complementare tra normalità e follia. Alla quota prevalente di ricoverati risocializzati si contrapponeva una quota minoritaria di folli che tendevano alla trasgressione: alcuni sotto forma di fuga o di vagabondaggio, altri rifiutandosi a qualunque attività produttiva e dedicandosi sistematicamente all’accattonaggio, altri ancora praticando l’amore “libero”.

Solo quando tali comportamenti sono stati vissuti, dagli operatori, come esperienze soggettive piuttosto che psicopatologiche, c’è stata la tendenza di alcuni "trasgressori" a rientrare nella norma, ad ordinare il loro comportamento secondo modalità similari a quelle del gruppo. Altri, forse, non rientreranno mai, e continueranno a trasgredire una norma che ormai è vissuta solo come prevalente e non esaustiva.

Concedendo a tutti la possibilità di aderire ad una norma, senza imporla a nessuno, e non invalidando le esperienze che la trasgrediscono, l’esperienza comunitaria è giunta alla fine. Agli occhi di altri, il risultato può apparire mediocre; per i nostri, risanati dalla presunzione di onnipotenza della psichiatria, è motivo di orgoglio.

Roma novembre 1980